Di sicuro ci son solo le tasse e la morte…

A causa di uno sconsiderato attacco all’ottimo Giovanni Orelli, a cui va tutta la mia stima, nelle ultime settimane non si è potuto parlare molto di morte in Ticino senza incorrere in interpretazioni legate allo scandalo. Pochi giorni prima era però stato pubblicato sul “Libero Pensiero” di marzo questo mio scritto.  Lo ripropongo, sicuro che il dibattito sulla morte va approfondito senza tabù e senza preconcetti, in particolare quando la discussione verte su ambiti spinosi come quello bioetico. Scriverò ancora sull’argomento.

Di sicuro ci son solo le tasse e la morte…

Sono a favore del suicidio assistito, dell’eutanasia passiva e di quella attiva. Questo non mi esime però dall’essere profondamente critico sulle mie convinzioni.

Partiamo dalla costatazione che viviamo. È vero, la vita è solo una percezione, ma mi pare sia una buona base di partenza. Poniamo quindi che (per ora) moriamo. La cosa interessante delle due situazioni è che mentre sappiamo che viviamo, in realtà non sapremo mai se moriremo.

Non c’è percezione della propria morte, perché la morte equivale ad un non-stato dell’umano. Se proprio, ci può essere una percezione del momento associabile al passaggio dalla vita alla non-vita. Ma non della non-vita in sé.

Dire “sono morto” è quindi una contraddizione. E la frase “meglio morti che vivi” può avere valenza solo in ambito culturale, non fisico: una non-situazione non può essere meglio di una situazione reale. In senso valutativo le due non sono cose comparabili, ma solo contrapponibili. Proprio perché la non-vita della vita non ha nulla.

“Se muoio, a me non cambia niente!” Una frase forte, penseranno alcuni. Per capirla facciamo un esempio partendo dal suicidio: una persona non può, ex ante, decidere di suicidarsi. Può solo decidere di tentare il suicidio. Se tenta il suicidio non sa prima se morirà, e se muore non lo può venire a sapere. L’unica cosa che può fare è cercare di ridurre al minimo le probabilità di non morire. Si capisce che non è una situazione win-win: il suicida se non muore “perde”, se muore non sa che “vince”. Tanto vale.

Queste considerazioni sono una conseguenza di un’impostazione gnoseologica ben precisa. Si dà al reale una valenza esclusivamente comunicativa, percettiva, e si considera la persona solo come una figura strutturale del sistema informativo, separata dall’essere umano fisico/psicologico. “Io sono perché si parla di me” verrebbe quasi da dire.

E quindi, astraendo qui volutamente dalla condizione psicologica suicidale, osserviamo che la morte è un fatto più sociale che personale. Lo stato di non-vita non ha effetti su di me, ma sul mio ambiente. Quando io muoio io non cambio (poiché il non-essere è una negazione, non un cambiamento), ma cambia tutto ciò che era in contatto con me. E quindi si scatena il lutto, il distacco, la critica, la mitizzazione. Il martirio è forse uno degli esempi più intriganti: il non-essere fisico scatena l’esplosione dell’essere sociale.

Essere a favore del suicidio è allora un problema leggermente più complesso della semplice frase “se la Chiesa condanna il suicidio allora io ne sono a favore” oppure “sono libero di morire!”. Perché, nella premessa totalizzante che la libertà esista di principio, si vorrebbe che la morte agli altri non provochi differenze. Mentre in realtà l’unico a non essere toccato dalla morte è proprio chi muore!

Ora, osservando queste parole sorge il problema di una pretesa normativa orientata al divieto del suicidio (come diretta conseguenza dell’indisponibilità della morte e non, come invece dice la Chiesa, a causa dell’indisponibilità della vita). La realtà va però sempre oltre la pretesa normativa, soprattutto quando essa è generalizzata. Non si può, da un punto di vista puramente fattuale, vietare a una persona di tentare il suicidio.  E nel dramma della volontà suicidale (che sia essa provocata dal dolore, da condizioni di desolazione sociale o da una vita che, in fondo, è imposta da chi genera e non richiesta da chi nasce), difficilmente si può pretendere da una persona di pensare esclusivamente ai suoi contatti sociali e ambientali. Tanto è totalizzante credere quindi nella libertà, tanto sarebbe totalizzante pretendere che il suicidio non possa far parte del nostro sistema sociale.

Di fronte all’aporia è però necessario prendere una posizione. È una posizione politica, parziale, mai definitiva, che ognuno di noi deve decidere di prendere per sé e per gli altri. Una decisione che non potrà fare l’unanimità. Per fortuna.

Filippo Contarini, giurista, Porza