Lungo viaggio nel fascismo del diplomatico Contarini

Lettera inviata nel 2012 al Prof. Sergio Romano per la sua colonna sul Corriere della sera, ripubblicata sul sito online del giornale.

“Scrivo a proposito di mio bisnonno Salvatore Contarini. So che Lei ha avuto modo di scrivere a proposito di quest’uomo, che per la sua attività è stato riconosciuto tra i migliori servitori dello Stato nella Storia dell’Italia unitaria. I miei dubbi sono sorti leggendo il libro del professor Aram Mattioli «Viva Mussolini!», La guerra della memoria nell’Italia di Berlusconi, Bossi e Fini (Garzanti 2011) in cui è ripercorsa la mancata memoria dei delitti compiuti nel ventennio fascista. Il punto cardine su cui Mattioli incentra il suo libro (e critica quindi il revisionismo attuale) consiste nei crimini di guerra compiuti dalle armate fasciste nelle colonie africane e in Jugoslavia. Salvatore Contarini, è risaputo, non era d’accordo con la politica bellica fascista e rassegnò le dimissioni. La scelta di campo è importante e denota la personalità di un uomo che, sebbene avesse idee chiare, non era un politico. Rimaneva però un africanista, un esponente del liberalismo monarchico nazionalista tendenzialmente espansionista. Rimase senatore a vita del Regno d’Italia durante tutto il periodo fascista, e fu vicepresidente della commissione degli Affari esteri del Senato. Pensa che possano esserci legami tra la sua attività di senatore e i crimini di guerra italiani?” Filippo Contarini , filippo.contarini@unilu.ch

Risposta del 16 settembre 2012: “Caro Contarini, Quando Mussolini formò il suo primo governo nell’ottobre del 1922, e volle tenere per sé il portafoglio degli Esteri, suo bisnonno era segretario generale del ministero. Apparteneva alla carriera, aveva 55 anni, era senatore e consigliere di Stato dall’anno precedente ed era un monarchico nazional-liberale, non meno colonialista di tutta la classe dirigente dell’Italia pre-fascista, da Giolitti a Sidney Sonnino, da Vittorio Emanuele Orlando a Ivanoe Bonomi. Al nuovo arrivato del palazzo della Consulta (il ministero si trasferì a palazzo Chigi un anno dopo), Contarini offrì le dimissioni parecchie volte, un po’ perché non era d’accordo con certe sue intemperanze, un po’ perché aveva tutti i difetti e le virtù di quei siciliani intelligenti, orgogliosi, scontrosi e poco malleabili che non amano spartire il potere con nessuno. Mussolini, dal canto suo, le respinse perché era consapevole della propria inesperienza, conosceva i meriti del segretario generale e capì rapidamente che i suoi pareri gli avrebbero risparmiato molte brutte figure. Ma era impaziente, autoritario e fondamentalmente convinto della sua capacità d’imparare rapidamente qualsiasi mestiere. Tra i due uomini non vi fu uno scontro decisivo, una improvvisa rottura. I rapporti divennero sempre più difficili quando Mussolini ritenne di potere fare una politica estera aggressiva, soprattutto nei Balcani, e cedette contemporaneamente alle insistenti raccomandazioni di quanti, fra cui Dino Grandi, volevano «fascistizzare» Palazzo Chigi inserendo nella carriera un gruppo di fedeli chiamati, dall’anno in cui vi entrarono, «ventottisti». Se vuole maggiori notizie sul modo in cui Mussolini amministrò il ministero degli Esteri, potrà leggere il libro (Diplomatico fra due guerre, edito da Le Lettere) che Giovanni Tassani ha dedicato all’uomo, Giacomo Paulucci di Calboli Barone, che fu allora il suo capo di gabinetto. Al Senato, dopo le dimissioni, Contarini fece esattamente quello che ci si poteva attendere da un uomo della sua generazione e formazione. Lo stile diplomatico del regime non era il suo e molte iniziative di Mussolini dovettero sembrargli pericolosamente avventate, ma la conquista dell’Etiopia piacque a lui come a quasi tutti gli italiani. Conviene ricordare infine che il Senato era ancora, nonostante tutto, un club monarchico in cui il regime, quando vi metteva piede, si toglieva gli stivali; ma non aveva alcuna influenza sulla politica estera e sulla condotta della guerra.”