Punizione

Ripropongo qua sotto un articolo di Sandro Cattacin, Ordinario di sociologia all’Università di Ginevra, pubblicato su ilCaffé di domenica 19 ottobre 2014.

Quando Hannah Arendt, nel 1961, accetta di documentare per la New York Review of Books il processo su Eichmann ci si aspettava una arringa brillante sulla giustizia contro l’organizzatore delle deportazioni nazionalsocialiste. Il risultato sarà, invece, il contrario. Lei mette in dubbio la legittimità del rapimento di Eichmann – lo Stato che oltrepassa gli accordi internazionali e la logica della giustizia – e peggio ancora. Nella sempre brillante sua descrizione della “banalità del male”  descrive Eichmann come una persona incolta, carrierista, obbediente, alla ricerca di fare quello che ci si aspetta di lui. Uccidere efficacemente gli ebrei. Fu scandalo, Arendt attaccata dai benpensanti, anche dall’opinione pubblica in Israele, si trova isolata. Ha detto due cose che vanno contro il senso comune, contro la voglia di punizione degli assassini. La giustizia è da rispettare ed è un valore assoluto per la democrazia. Ma anche: il colpevole è una misera vittima del sistema. Certo, la provocazione era grande. Chi non augurava ad Eichmann il patibolo, cosa che avvenne qualche mese dopo la fine del processo? Come si poteva non capire l’occhio per occhio, dente per dente israeliano? E come accettare una spiegazione sistemica che era come un’assoluzione per Eichmann?

La ragione di Arendt
Arendt ebbe ragione. Il movimento anti-psichiatrico e contro la logica delle prigioni riprese pienamente il suo modo di vedere e lo radicalizzò persino. Mosse dal principio che normale e anormale, giusto ed ingiusto erano categorie variabili, non universali. Secondo i periodi storici, secondo le risorse che alcuni avevano (i ricchi e i poveri insomma), certe cose erano punite, altre no. Anche il normale variava nel tempo, trasformando, per esempio, la persona omossessuale da caso medico (da castrare) a caso psichiatrico (da trattare con gli elettroshock) per poi discuterne, oggi giorno, un diritto (mi permettete, sacro santo) di matrimonio. Grazie a Foucault si è capito che squartare, punire, rinchiudere è un gesto di potere inflitto da una maggioranza per caso ad una minoranza per caso. Per il sistema giuridico, questo modo di pensare fu liberatorio. Si aprì la strada alle perizie psichiatriche, all’intervento educativo, all’alternativa terapeutica contro carcere, ma anche ad operazioni di condanna e perdono come nel Sudafrica che implicavano una società intera. Ci fu largo consenso sul fatto che la prigione e la punizione non erano assolutamente adatte alla risocializzazione, che la condanna più importante era l’ammissione dell’errore, il pentimento, la scusa che portavano alla riconciliazione. Anzi, si capì che l’effetto della prigione e della punizione era spesso il contrario. In prigione esisteva il rischio di una ricaduta senza fine, un totale inserimento nel mondo malavitoso e una pecca non irrilevante nel curriculum che impediva qualsiasi recupero al di fuori del mondo della criminalità.

L’individuo in un sistema
La responsabilità non era più dell’individuo, ma era, per esempio, genetica, legata all’infanzia infelice, a dei traumi, alla paura di perdere la faccia, alla povertà, alle cattive frequentazioni. L’individuo di per sé, quando non è malato, non vuole nuocere, ed è capace di comprensione e pentimento. Il fatto che la colpa per un comportamento asociale o criminale non era da cercare nell’individuo, offriva possibilità d’intervento infinite a cominciare dalla lotta alla povertà, passando dalle riqualificazioni dei quartieri malfamati ad investimenti nell’educazione, ma anche alla risocializzazione in prigioni che non richiudevano per punire, ma per assistere delle persone in cerca di un futuro in società senza nuocere agli altri. Misure che si sono rivelate giuste. Non c’è ricerca che dimostri il contrario. Ma tutta la nostra quotidianità ci parla in un altro modo. La criminalità non è eradicata, persone che hanno subito traumi che portano alla violenza, vivono con questi danni senza che nessuna misura rieducativa abbia avuto un effetto. Ma dobbiamo per questo motivo cambiare il sistema giuridico, ritornare alla forza del potere, che decide oggi chi domani va in prigione? Dobbiamo rispondere alla lezione civile di Arendt e di Foucault, cioè la ricerca dei veri motivi della criminalità e degli abusi di potere, abbandonando l’orientamento sui valori umani, rinunciando alla ricerca di una società migliore?

Un progetto comune
Gli svizzeri, rispondendo ad una delle tante iniziative (incivili), hanno detto sì all’internamento a vita per certi reati, creando una giustizia impaurita di sbagliare, che condanna facilmente e che ci obbliga a costruire prigioni psichiatriche che pensavamo facessero parte di tempi lontani. Ha detto sì alla criminalizzazione e alla prigione per chi soggiorna senza permesso nel Paese, per chi, in altre parole, va in prigione, perché esiste. La paura che assilla chi sente le sirene del populismo becero, di chi legge solo cronaca (agghiaccianti al riguardo alcuni post sulla giustizia divina per i due rumeni morti nelle Centovalli), è il virus che si sta diffondendo, che è peggio di Ebola, perché mette a rischio l’idea di una società civilizzata in quanto progetto comune. Perché non è la via giusta? Perché punire, non è giustizia. Perché questa società civilizzata sopravvive solo se crede in se stessa. L’alternativa non è il meno civilizzato, ma la fine del progetto.

Sandro Cattacin, Ordinario di sociologia all’Università di Ginevra, saggista, la sua ultima opera è ‘Inseln transnationaler Mobilität’, pubblicato su ilCaffé di domenica 19 ottobre 2014