Perché è ora di parlare di obbligo delle mascherine – e della nostra identità

Da un sondaggio ai lettori del tagesanzeiger (10’519 partecipanti) emerge che il 78% ritiene necessario l’obbligo di mascherina sui mezzi pubblici. In un altro, dell’istituto Sotomo, il 30% degli intervistati si dice a favore di un obbligo. Sia come sia, un altro sondaggio dice che solo il 6% indossa la mascherina sui mezzi pubblici. La differenza tra il fare e il chiedere di obbligare è importante. Non siamo capaci di darci l’obbligo individualmente. Come mai?

L’opinione più diffusa che si trova sui media è che la popolazione svizzera vuole semplicemente tornare a vivere la sua “normalità”. Visto che siamo consapevoli di questa Verdrängung (ovvero la negazione della malattia), chiedere al governo di obbligarci a mettere la mascherina sarebbe come un grido d’aiuto: “svegliaci!”. Un politologo ha esposto un’altra interessante motivazione: siccome Daniel Koch ha detto che la maschrina serve solo a proteggere gli altri, allora la gente non la usa. Si tratta di due argomentazioni che ci rappresentano come una marea di bambini egoisti. La reductio ad cojonem è tipica di chi la sa sempre lunga. Ma è una lettura debole.

Come ricorda uno psichiatra, la mascherina nella nostra cultura è considerata come simbolo di auto-esclusione. Chi la usa, sostiene il medico, sembra maledettamente asociale. E come ricorda un altro psicologo, stavolta in Austria, la mascherina se usata solo da poche persone fa attirare su di sé l’attenzione degli altri. Ecco qui due momenti individuali-sociali da questionare sulla nostra idiosincrasia per la mascherina, ovvero la centralità del volto nelle nostre interazioni sociali e nella nostra identità.

Partiamo da un assunto: nella modernità occidentale contemporanea c’è stata una smobilitazione dell’estetica. Soprattutto gli abiti non sono più legati ai ruoli come una volta. L’individualità è diventata sinonimo di estroversione dell’abbigliamento, i modelli comportamentali si sono quindi “trasferiti” sul volto. Nella nostra cultura siamo socializzati a ritenere la mimica facciale il centro della comunicazione umana non-verbale. I micro-movimenti ci indicano come orientarci nel contesto umano in cui ci troviamo. Il rispecchiamento di questi micromovimenti descrive la nostra identità modellare.

Questa centralità del volto si ritrova in vari fenomeni sociali. Le spose e le donne religiose sono state “svelate” (ed infatti oggi ci sono solo alcune processioni con le suore velate, p.e. nella cattolica Friborgo). Siamo tutti presenti su facebook, ovvero il “faccia-libro”. Sul nostro documento principale della nostra cultura, la carta di identità, il nostro volto è la base della riconoscibilità. Ed infine – e come potrebbe mancare? – l’arrivo delle telecamere che permettono di fare “il riconoscimento del volto” valgono come ultima frontiera della nostra sicurezza.

Si badi bene: non è che il nostro volto ci dia identità, l’identità è una cosa maledettamente complessa e reticolare, che dipende anzitutto dal contesto in cui viviamo. Il nostro volto ci permette però di cambiare continuamente la nostra “maschera” in una società divisa in funzioni per cui in ogni momento abbiamo bisogno di una “maschera” diversa (e per cui gli abiti non sono più fondamentali). D’altronde la parola “persona” significa (dall’etrusco) proprio “maschera”! La centralità della dimensione visiva del volto nella nostra società si ritrova benissimo nello sviluppo del teatro moderno: da un lato si è sviluppato il teatro borghese, che ha abbandonato la maschera (fisica!) per impersonare i personaggi sul palco, esaltando il ruolo del volto (si pensi a Molière e a Goldoni). Dall’altro si è sviluppato il teatro giudiziario, in un processo pubblico al centro ci stanno due enti psicologici ed espressivi, il giudice e il criminale, entrambi mitizzati e eroizzati dalla stampa.

Pensare che la gente indossi volontariamente le mascherine è assurdo proprio perché non fa i conti col problema che noi indossiamo costantemente “maschere” che vanno bene da momento a momento. La mascherina in questo senso distrugge la “maschera”. Non è una questione di individualismo, ma di sincronizzazione nella comunicazione sociale. Il problema di non usarle volontariamente non è che siamo tutti bambocci egoisti, ma è che con le mascherine ci disorientiamo nella nostra identità comunicativa. L’unica cosa che può sostituire questa misura di contenimento della pandemia è un obbligo scritto nero su bianco. Perché nella nostra cultura la norma statale è veicolo di identità politica. Con tutte le conseguenze (anzitutto violente) che ne derivano, molte delle quali estremamente problematiche.

Lo Stato non può volere la famosa botte piena ecc. Pensare di poter moralizzare la società con una raccomandazione di portare la mascherina e poi darci a tutti dei cojoni è stupido (ma non è che io abbia molta fiducia nella capacità degli scienziati e dei legislatori di interpretare la società…). E d’altronde i fatti sono là a mostrarlo. Qua a Zurigo le (pochissime) persone che si vedono con la mascherina appartengono a tre categorie: gli anziani, i giovanissimi e le persone che a prima vista appaiono migranti (anche se chi può dirlo?). I primi si sentono in pericolo, c’è poco da dire. Per i secondi l’identità corre su nuovi canali virtuali, molto legati all’appartenenza alle logiche dei social media, e quindi la loro “maschera” nello spazio pubblico ha un significato legato a quella del loro cyberspazio, che si vive anzitutto nella bolla sicura e sterilizzata di camera propria (si pensi a tiktok). Per i terzi l’identità nella nostra cultura occidentale ha connotati tutti diversi, si è esclusi a prescindere. Mettere la mascherina non significa “perdere l’identità” nello spazio pubblico perché la loro identità è già negata dal nostro razzismo bianco.

In tutte queste costellazioni scopriamo che c’è una relazione fra come viviamo la vita pubblica e come ci mostriamo sulla via pubblica. In questo senso lo Stato e la sua capacità di dare forma a quella via pubblica ha un obbligo di analisi maggiorato rispetto a quello che pensano medici, statistici e politologi. Qua spezzo una lancia (mi permetterete!) a favore dei teorici del diritto contemporanei. Il problema riguarda il legame fra le regole e la nostra comprensione dello spazio pubblico. La moralizzazione e la riduzione della gente a cojones non fa bene a nessuno, anzitutto non fa bene alla nostra capacità di reagire in modo adeguato al virus – e salvare così vite umane.

Filippo Contarini, teorico del diritto

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